Ha scritto sul suo blog di informazione locale che il settimanale per cui lavorava era ben fatto, ma non lo pagava. L’editore l’ha chiamato annunciandogli una querela da 70mila euro. E’ successo a Lorenzo, giornalista di Milano. Quando l’ha raccontato in un convegno nazionale, nessuno dei sindacalisti presenti si è alzato per dirgli “parliamone”.
Quella di Lorenzo è una delle tante storie raccontate durante il convegno dell’Ordine dei giornalisti per approvare la Carta di Firenze, un regolamento deontologico che tuteli i precari dell’informazione. Perché questo siamo, il freelance è un’altra cosa, per quanto a volte ci piaccia chiamarci così perché suona meno triste.
Come Lorenzo, molti altri hanno raccontato fatti spiacevoli realmente accaduti: gente cacciata dall’oggi al domani per aver litigato col capo (è permesso, ahimè), gente minacciata dalla malavita e non difesa dai colleghi, gente sfruttata per 2 euro a pezzo e poi scaricata quando ha chiesto un aumento. In nessun caso un sindacalista si è alzato per parlare con queste persone. A dir la verità, escluso i vertici dell’Fnsi, c’erano pochissimi sindacalisti, quasi nessun membro di un comitato di redazione. Questo dimostra che l’interesse per i colleghi non contrattualizzati è basso, purtroppo. E la parola “basso” è una gentilezza.
Comunque la Carta ha un suo perché. Mette in chiaro che noi precari dobbiamo farla finita di accettare ogni condizione e che i responsabili delle redazioni che utilizzano precari sottopagati e senza diritti sono passibili di una sanzione disciplinare. Non è cosa da poco, un caporedattore punito deve lasciare il suo ruolo. Immaginarsi un direttore sanzionato: non potrà più firmare il giornale.
Si è parlato anche di legge sull’equo compenso, una novità che se verrà approvata permetterà di difendere pure i tanti giovani che sudano per ore in un’azienda qualsiasi e vengono pagati meno di una colf part-time, secondo la logica del “devi essermi grato, perché almeno ti do un lavoro”.
Esistono redazioni dove gli stagisti sono pagati 800 euro al mese, dove i collaboratori e i capiredattori quando escono per servizio ricevono un rimborso identico che ha un tetto massimo da lavoratore normale (niente hotel a 5 stelle, per intendersi) e che quando vanno in stato di crisi rinunciano ai tirocini invece che riempirsi di gente che lavora gratis. È il comunismo? No, è l’inglese Reuters.
C’è chi ha detto “Non lo faranno mai, nessuno punirà un collega, è una casta”. Ci sta, non siamo qui a sognare la vittoria della giustizia, questa è pur sempre l’Italia. Ma in qualche modo bisogna cambiarla, se non vogliamo invecchiare in un paese che non ci piace. E’ per questo che non ho fatto come molti colleghi, e al convegno ho deciso di esserci. E se un giorno, per errore, arriveremo noi a ricoprire un ruolo di responsabilità, guardiamo di non fare lo stesso sbaglio e di evitare le solite frasi “E’ la gavetta, ci siamo passati tutti”.
Vivere con 600 euro al mese per anni, anche dieci, crea una selezione naturale tra chi se lo può permettere perché ha i soldi di famiglia, e chi deve cambiare mestiere perché non ce li ha. Non è gavetta, non è un modo per vedere chi ha voglia di fare questo lavoro e chi no. E’ un’ingiustizia. E basta.